” Odiare non è uno sport”

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Nella sede del CONI al Foro Italico a Roma nei giorni scorsi sono stati presentati i risultati della seconda edizione di una ricerca realizzata dal Centro Coder dell’Università di Torino nell’ambito del progetto “Odiare  non è uno Sport”.

Per tre mesi, da ottobre 2022 a gennaio 2023, sono stati monitorati i social Facebook e Twitter e cinque testate giornalistiche italiane( Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Corriere dello Sport, Sky Sport e Sport Mediaset) identificando 4 principali dimensioni dell’hate speech: linguaggio volgare, aggressività verbale, aggressività fisica e discriminazione.

Su un totale di 3.412.956 commenti su Facebook e 29.625 su Twitter circa un milione sono stati classificati come “ discorsi di odio” ed almeno 200.000 contenevano riferimenti alla discriminazione.

Il fenomeno, rispetto alla ricerca del 2019, è purtroppo in crescita: questo significa che se una persona per informarsi su quanto avviene in ambito sportivo usa i social, quasi certamente si imbatterà in varie forme di hate speech con conseguenze dannose.

Il rischio è infatti quello di partecipare a questo flusso, oppure di allontanamento da quell’ambiente perché si rimane colpiti in modo negativo.

Il “Barometro dell’odio nello Sport” fornisce anche una panoramica sulla rilevanza che hanno le varie discipline per questa problematica.

Il calcio è dominante nelle discussioni social con circa il 95 % dei post .

Di grande interesse la parte della ricerca dedicata a grandi personaggi con focus specifici su  calciatori, allenatori  e campioni di altre discipline.

Quando qualcuno di questi prende posizioni decise contro il razzismo  viene preso di mira online, scatenando un flusso ancora più forte di hate speech.

“Diventa sempre più importante lavorare  con i  i giovani per contrastare questi fenomeni- commenta  Sara Fornasir Coordinatrice del Progetto “ Odiare non è Sport”È molto interessante il confronto fra quanto avviene nello sport di alto livello ed il lavoro fatto dagli enti di promozione sportiva con le  società dilettantistiche. Sapere che i ragazzi che praticano sport hanno questo perimetro di attenzione attorno a loro è estremamente positivo perché possiamo muoverci insieme partendo dal basso , per una reale mobilitazione, contro l’odio online”.

La ricerca dell’Università di Torino proseguirà nei prossimi mesi con l’analisi dei social più utilizzati dai giovani, come Tik Tok ed Instagram per capire se le tendenze sono simili o differenti.

“ Il CSI- afferma il Presidente nazionale Vittorio Bosio– è da sempre in prima linea per promuovere lo sport  come veicolo di crescita, inclusione e confronto. Non ha potuto quindi far mancare la propria voce in questo progetto perché anche noi prestiamo grande attenzione alla dimensione digitale dei confronti e delle relazioni ,negli ultimi anni sempre più inquinate, con il diffondersi dei social media, da insulti, minacce di odio, scontri. Lo sport deve restare un gioco, un divertimento: ogni partita è sempre un incontro con avversari, mai con nemici”.

Da molti anni il comitato di Genova del CSI declina in modo concreto questi principi : paradigmatico è il Torneo “ Tutti in Campo”, riservato a bambine e bambini di 4-5- 6 anni, con partitelle di calcio  ma anche momenti ludico- motori.

In ogni disciplina sportiva, si pensi ad esempio al circuito di mountain bike, la parte strettamente agonistica, mai esasperata, passa in secondo piano rispetto a splendidi momenti di coinvolgimento emotivo da parte dei famigliari lungo i percorsi.

Tutto questo si traduce anche in un racconto sui social modo più leggero, senza prendersi mai troppo sul serio, con immagini, linguaggio e toni appropriati.

“Purtroppo la fotografia emersa dal progetto “ Odiare non è sport” non mi sorprende- dice Enrico Carmagnani Presidente CSI Genova Non sui nostri canali ufficiali, ma nei vari rivoli dei social (lo dico con l’occhio di padre) sono invece frequenti casi di bullismo, maleducazione o arroganza che vengono poi amplificati. Si è innescata una spirale negativa che senza il filtro del rispetto, vera lacuna nella cultura dominante, si allarga a macchia d’olio. Quello che più mi preoccupa è che non solo i genitori, ma anche le nuove generazioni di dirigenti e allenatori sembrano non capire la gravità del fenomeno ed hanno abdicato al loro ruolo, certo impegnativo e talvolta impopolare, di educatori. E’ un vero peccato, perchè se è vero che il fenomeno non riguarda solo lo sport, è altrettanto vero che lo sport è sempre più centrale nella vita delle famiglie ,sia esso quello praticato, sia quello che una volta chiamavamo da bar e oggi diciamo da tastiera, e noi potremmo giocare un ruolo determinante per una inversione di tendenza”.  

 

 

 

 

 


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